A caccia di esperienze

“Il periodo pandemico ha scardinato in maniera definitiva il paradigma: lavoro uguale ufficio o viceversa ufficio uguale lavoro. È una grande banalità ma anche una grande verità, appurata la quale le imprese hanno osservato due fenomeni. Il primo è che tutto ciò che in azienda è guidato dai processi, può essere sostanzialmente gestibile da remoto. Chiaramente non stiamo parlando dei processi produttivi, ma di quelli aziendali che sorprendentemente da subito sono stati gestiti molto bene da remoto, con un impatto minimo sull’efficienza e sui risultati. Allo stesso tempo però le realtà organizzative hanno sperimentato la mancanza di tutto ciò che accade in virtù della presenza, dell’incontro, del confronto e dello scambio di idee tra le persone che l’azienda la compongono. Si tratta di una sorgente continua di energia, idee e opportunità che nel periodo duro del lockdown è venuta meno, ma che è fondamentale per costruire l’identità corporate. Le aziende vivono, infatti, attraverso la loro cultura, i valori, un certo tipo di linguaggio e di interazione. Quindi da un lato le imprese hanno continuato a funzionare come se nulla fosse e dall’altro hanno sofferto per la mancanza di presenza fisica. L’emergenza ha appiattito tutto” spiega Massimo Picca, Senior Equity Partner di Chaberton Partners.
Ma ha anche avuto benefici sulla vita privata…
La pandemia ha accelerato di fatto un fenomeno che era già in atto, mettendo in primo piano il work life balance per intere fasce di lavoratori, soprattutto i giovani, che oggi quando prendono parte a una selezione la prima cosa che spesso domandano è quanti giorni di smartworking sono previsti. Sono loro che, se l’azienda non risponde alle loro aspettative, rifiutano di proseguire nell’iter di selezione.
Diciamo che si è ribaltata la situazione rispetto al passato…
In questo scenario è interessante vedere come ogni azienda stia affrontando la fase successiva. Ci sono realtà che stanno approfittando di questa occasione per rivedere la propria organizzazione in modo sistemico; altri non lo stanno facendo. In generale, sono soprattutto le aziende imprenditoriali, magari legate ad attività produttive e a contesti geografici periferici, quelle più restie al cambiamento, che sono di fatto ritornate a un’organizzazione analoga al pre-covid. Per queste aziende il tema si limita a una negoziazione con i lavoratori del numero di giornate di smartworking, quasi come se fosse una rivendicazione sindacale.
Cosa accade, invece, nelle aziende più evolute?
Stanno cogliendo questa opportunità per ripensare in modo radicale il rapporto tra la persona, gli spazi e le modalità lavorative, per identificare quali sono i momenti lavorativi individuali o collettivi che possono avere un impatto o sul business o sulla socialità o sulla costruzione della cultura organizzativa e come possono essere gestiti, in presenza o in modalità virtuale. Se da un lato sono tutti allo stesso punto, dall’altro sto osservando una grande diversità di approccio. C’è chi limita il tema allo smartworking e chi lo affronta in modo molto più aperto, più profondo, cogliendo l’occasione per una radicale rivisitazione.
Immagino che queste ultime siano principalmente grandi aziende?
Prevalentemente si tratta di grandi aziende, ma ci sono anche aziende più piccoline e più agili che stanno cogliendo l’opportunità.
Ai manager sono chieste oggi competenze differenti rispetto al passato?
Non ci sono sostanziali differenze tra il tipo di competenze che vengono richieste oggi e quelle prepandemia, indubbiamente questo periodo ha ulteriormente enfatizzato il tema dell’agilità, cioè la capacità di navigare in un contesto incerto, mutevole, che può cambiare da un momento all’altro. Inoltre, all’interno di un profilo di leadership è diventato assolutamente imprescindibile anche la capacità di ingaggiare le persone. In molte realtà, soprattutto per quanto riguarda le aziende legate al mondo digitale, i rapporti gerarchici stanno venendo meno.

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